Leggendo il ‘racconto’ di Stefano Massini, domenica 7 aprile su ‘Repubblica’, ho pensato quanto poco si sappia delle periferie italiane, e quanto si dibatta ancora attorno a immagini mitologiche o letterarie del fenomeno. L’idea diffusa è quella che la periferia sia ‘distante’ dal centro, e che il degrado periferico si contrapponga al pregio centrale. Combinando questi elementi, ne scaturisce la formula standard che il centro pregiato e la periferia degradata sono molto ‘distanti’ tra loro. Niente di più falso. Eppure su questa fake (il mito della distanza, la netta distinzione tra centro e periferia, tra pregio e degrado) si edificano da anni discussioni pubbliche, pezzi giornalistici e, soprattutto, si fanno politiche inefficaci se non controproducenti. Ho pure notato che Roma, anche qui, è ritenuta l’eccezione in un Paese costituito, così si dice, soprattutto da ‘piccoli centri’. Lo schema prevalente che si adotta, appunto, è quello della micro comunità urbana, circondata da un hinterland di comuni contermini, con grandi vuoti e con abitati tutti gravitanti attorno alle astronavi dei centri commerciali. Altra banalità. Lo dico provocatoriamente: il centro commerciale è spesso erogatore di servizi, non solo mecca del consumismo. E dunque non è degrado tout court, anzi. A meno che non si insegua un altro mito, quello della piccola città che, in altri tempi, era compatta, intessuta, solida, comunitaria, e che poi la storia successiva ha degradato, ingrossando la sua periferia a scapito del centro urbano. Massini afferma che la fiera identità urbana è scolorata lentamente nella grana grossa della campagna: come un’identità che muore lentamente. Ma, dico io, per creare comunque altra identità, altra forma, altra cittadinanza! Non per renderci tristi e morbosi partecipi dello spettacolo decadente (e romantico) delle civiltà urbane e contadine che muoiono entrambe. Un po’ come la Venezia decadente racconta dai grandi scrittori.

Il mito della distanza ci narra che c’è un centro pulsante, pregiato, vivo e attorno una periferia lontana, degradata, che si sgretola progressivamente nel contado. Ma si tratta appunto di un mito. Il degrado urbano non è un questione quantitativa, non è prodotto soltanto dalla distanza, ma è un fatto che coabita, si mescola, lotta con il pregio circostante, prossimo, secondo uno schema eterogeneo a macchia di leopardo. Bassi e alti standard urbani coabitano. Perché anche questo va detto: non deve essere la distanza presa in astratto il punto di partenza dell’analisi, ma una valutazione attenta degli indici urbanistici, sociali, economici, demografici, culturali, finanche etnici, nei quartieri e al loro interno, senza pregiudiziali territoriali. Nella consapevolezza che il tessuto cittadino è molecolare, dissimile per natura, con massima evidenza nelle grandi città, ma con segnali precisi lanciati anche dai mitici ‘piccoli centri’. Un difetto italiano, ad esempio, che è quello di disprezzare la Capitale, di considerarla un’eccezione in negativo, incide gravemente sulle analisi e sulle politiche. In realtà, se Roma non fosse solo considerata ‘ladrona’, se fosse finalmente trattata per quel che è, ossia un laboratorio politico e sociale, nonché un grande fenomeno socio-culturale che produce quotidianamente immagini e linguaggio, se fosse gettata una lente non pregiudiziale sulla sua vita quotidiana, allora ne sapremmo di più della ‘cosa’ periferica di cui oggi si parla senza averne, purtroppo, una competenza effettiva. A Roma è palmare come la periferia intesa in senso mitologico non esista più. Ma esista un tessuto eterogeneo dove sviluppo e arretratezza convivono, prevalendo ora l’uno ora l’altro. Non si vuol dire che in VI Municipio si viva meglio che ai Parioli, ma che le situazioni sono molto più complicate di quanto appaia a uno sguardo offuscato dal mito.

Faccio un esempio che riguarda proprio il VI Municipio di Roma, quello di Tor Bella Monaca e Torre Maura per capirci. Il suo territorio è quasi tutto oltre il GRA, ed è abitato da 300.000 abitanti, moltissimi stranieri. Bene. In quel bacino, a ridosso dell’area dei Castelli Romani, c’è il campus della II Università di Roma, una grande policlinico universitario, un secondo policlinico, il Casilino, con un importante pronto soccorso, e poi la più moderna infrastruttura dei trasporti a Roma, la linea C della metropolitana. Nel bacino gravita anche il Centro Servizi della Banca d’Italia, il più grande d’Italia. Il Municipio VI inoltre ha una sede integrata e a ridosso c’è il Teatro di Tor Bella Monaca, un vero e proprio fenomeno culturale a Roma, più ‘centrale’ di tanti altri teatri blasonati. A borgata Finocchio è stata aperta una bellissima biblioteca pubblica, posta in un parco attrezzato nel cuore dell’abitato con asilo nido e centro anziani. Ci sono poi i famigerati centri commerciali, che offrono pure servizi culturali. A Roma Est c’è un cinema multisala e la libreria Mondadori (nel territorio non c’è nessun altro cinema e pochissime altre librerie, tra le quali ricordo il Booklet le Torri di Tor Bella Monaca). Non vuol dire che queste borgate siano un paradiso, al contrario. L’aspettativa di vita a Tor Bella Monaca è di 7 anni inferiore a quella di Piazza Bologna, ed è tutto dire. Vuol dire invece che bisogna uscire dai pregiudizi e togliersi i paraocchi. Anche perché lo stesso centro storico e i quartieri centrali non sono, nemmeno essi, il paradiso, anzi. È questione di prevalenza, insomma. Non c’è un muro che divida il qua dal là. E stabilisca cesure nette. Tra la città e la campagna c’è una grandissimo ‘frammezzo’ urbano, una terra che trascolora pian piano, che non esclude macchie di degrado anche nella famosa ZTL centrale o sui lungotevere o in Prati, e nemmeno esclude momenti di pregio, anche alto, nel pur slabbrato territorio suburbano. L’invito è a uscire dalla cartoline decadenti, malinconiche, quelle che raccontano la fine del buon mondo antico, per ripensare la città oggi, così com’è, non come la vorrebbe una favola identitaria che svapora col tempo. È lo stesso messaggio che mando alla politica: prendere di petto il mondo, la società, lo Stato per quel che sono diventati, senza avere gli occhi offuscati dalla nostalgia. Magari quel che siamo non piace, non è quello che avremmo voluto, ma è quello in cui viviamo e vivono milioni di persone. Da cui è necessario ripartire. È un appello anche a ripensare Roma, la sua funzione di Capitale, la sua grandezza, la sua bellezza, la capacità anticipante. Adesso lo dico: è l’unica vera metropoli che abbiamo, con aspre contraddizioni innestate in una cultura e in una storia millenarie. Facciamone buon uso, invece, di paragonarla scandalosamente ai giardinetti ben curati di un qualsiasi piccolo centro del nord. Per cambiare la storia, bisogna avere il coraggio di guardarla in faccia, la storia.

Ho scritto un libro di poesie su ‘Non Roma’. Ho usato questo termine (Non Roma) per indicare il vuoto, il degrado, la solitudine, l’irrelatezza in massima parte presenti in borgata, ma vivi e attuali anche in centro. Il degrado è un grande virus urbano, che attacca tutti i tessuti cittadini, non solo quelli più ‘distanti’. Non Roma è dentro Roma, perciò, così come la non città è dentro la città, in una fantasmagoria di forme, ceselli e interstizi tutte da studiare. Non è la fine del mondo, ma l’aspetto che il mondo ha oggi. Certo, pensare che la distanza dal centro misuri direttamente anche il degrado, è una vera bestialità. Ecco perché la parola “periferia” non funziona più: perché è un concetto che ‘quantifica’ in termini di distanza. Per questo, adottare il paradigma opposto, quello per cui il degrado è anche in noi e dentro di noi – e così, da altro punto di vista, il pregio – sarebbe una buona base di partenza per riprendere contatto con il mondo esterno, dopo che se n’è vissuta la realtà attraverso filtri e pregiudizi ingannevoli, e soprattutto inutili alla bisogna. E il bisogno è quello di accrescere il pregio (servizi, decoro, cultura, socialità, trasporti, manutenzione) e di ridurre il degrado che lottano anche all’interno delle nostre anime: nelle periferie esistenziali e nella ‘Non Roma’ in cui il nostro spirito si dibatte quotidianamente, non solo in borgata ma anche all’ombra del Colosseo.